Anna Giulia Bottaccioli1, Francesco Bottaccioli2.
1 Medica specialista in Medicina interna, insegna “Psicosomatica” all’Università san Raffaele di Milano e “Clinica PNEI” nella formazione post-laurea delle Università di Napoli e di Torino. Membro del Direttivo nazionale SIPNEICorreo de contacto: annagiulia.bottaccioli@gmail.com..
2 Filosofo della scienza e Psicologo neurocognitivo, insegna “Fondamenti di Psiconeuroendocrinoimmunologia” nella Formazione post-laurea di numerose Università Italiane. Fondatore e Presidente onorario SIPNEI. Correo de contacto: francesco.bottaccioli@gmail.com
Nell’aprile del 2022 abbiamo pubblicato, su invito di una rivista internazionale di biologia molecolare, un’ampia review che riporta le principali evidenze scientifiche sul tema delle relazioni tra vita psichica e biologia, traendone alcune conclusioni di carattere generale sulla psicologia e la medicina (Bottaccioli, Bologna & Bottaccioli, 2022). Il presente articolo riprende alcuni dei passaggi fondamentali presentati in quella review.
Parole chiave: relazioni bidirezionali tra biologia e psicologia; evidenze scientifiche; psiconeuroendocrinoimmunologia (PNEI); epigenetica; riduzionismo
Keywords: biology and psychology bidirectional relationships; scientific evidence; psychoneuroendocrineimmunology (PNEI); epigenetics; reductionism.
In via preliminare ci pare opportuno avanzare alcune precisazioni di metodo per evitare fraintendimenti e giudizi sbrigativi su un terreno molto segnato da un dibattito secolare. L’articolo prende in esame le relazioni tra stati mentali e biologia. Non tratta dei fattori eziologici alla base degli stati mentali. Non affronta quindi, se non incidentalmente e in subordine allo sviluppo del ragionamento, le cause molteplici (relazionali, comportamentali, sociali, di condizione biologica) della depressione, della solitudine o di altre condizioni psichiche, ma illustra i meccanismi di sistema (asse dello stress, attivazione immunitaria nei diversi organi, cervello incluso, e così via) e molecolari (epigenetici, biochimici) con cui queste condizioni psichiche segnano la biologia. Abbiamo fatto questa scelta sia per economia di ragionamento sia perché, storicamente, è questo lo scoglio da superare, riassunto nella domanda: come, con quali meccanismi verificabili, un evento emozionale o uno stato psichico riescono a influenzare la biologia? Per rispondere abbiamo evitato una discussione di tipo filosofico, pur di grande interesse che, del resto, abbiamo affrontato in altri contesti (Bottaccioli, 2014a; Bottaccioli y Bottaccioli, 2022; Bastianelli et al., 2021; Bottaccioli, 2022), sulle relazioni mente/corpo tra eliminativisti, dualisti, riduzionisti, funzionalisti, emergentisti, rinviando per avere un quadro esaustivo del dibattito a Di Francesco, Marraffa y Tomasetta (2017) e Nannini (2021). Per chiarezza, la nostra, sul piano filosofico, è una posizione classificabile come “emergentista”, cioè concepiamo la dimensione psichica come emergente dall’attività del sistema nervoso centrale e dall’insieme del network biologico umano, ma che non è riducibile a esso e che anzi è in grado di retroagire sulla biologia da cui sorge.
Inoltre, vogliamo chiarire che, quando ci riferiamo a una condizione di stress, intendiamo, secondo la letteratura degli ultimi decenni, una condizione di sofferenza psichica di tipo cronico, derivante da traumi e da rilevanti eventi della vita che hanno soverchiato le risorse del soggetto, la sua capacità di coping, determinando ciò che viene definito “carico allostatico” (McEwen, 1998; McEwen y Akil, 2020). Infine, per ragioni di spazio, qui non prendiamo in esame le vie di comunicazione bidirezionale tra psiche e sistemi biologici che invece abbiamo trattato altrove (Bottaccioli et al., 2022) a cui rimandiamo.
Oggi i ricercatori e gli studiosi in campo psicologico e biomedico si trovano nella felice condizione di poter completare il programma di ricerca della medicina psicosomatica, avviato verso la fine degli anni 1930 del secolo scorso da Franz Alexander (1939) e sviluppato negli anni 1970 da George Engel (trad. en 1977). È possibile documentare le relazioni psiche-cervello-corpo ed evidenziare i meccanismi con cui stress, emozioni, stati mentali e sociali attivano il macchinario cellulare. Discuteremo alcuni esempi significativi, ma, in primo luogo, è necessario fare una breve presentazione delle innovazioni realizzate dalla biologia che consentono di spiegare, tramite i princìpi dell’epigenetica, come il mondo psichico diviene biologia molecolare.
Le scienze biologiche sono il motore di una rivoluzione di portata epocale, che crea condizioni inedite di confronto e collaborazione tra psicologia e biologia, gettando su basi assolutamente nuove la costruzione di una teoria della natura umana. Al posto del paradigma riduzionista e determinista è emerso un nuovo paradigma che vede il genoma non più come un centro direttivo che impartisce istruzioni all’organismo, bensì come un dispositivo adattivo che risponde alle esigenze ambientali regolando l’espressione genica. L’epigenetica è la scienza in rapida espansione che studia i meccanismi molecolari con cui l’ambiente e la vita individuale agiscono sulle informazioni contenute nel genoma (Bottaccioli, 2014a). Una peculiare caratteristica dei marcatori epigenetici (che qui non dettagliamo, rinviando il lettore interessato a Bottaccioli y Bottaccioli, 2020, cap. 4; Tollefsbol, 2021) è che essi, a differenza delle mutazioni genetiche, sono reversibili. La reversione di questi cambiamenti nella espressione delle informazioni geniche può essere ottenuta usando varie strategie: comportamentali, per esempio con la nutrizione (Nur et al., 2021); psicologiche, per esempio con la psicoterapia e le tecniche mente/corpo (Rodriguez et al., 2021; Buric et al., 2017); farmaceutiche, per esempio con le epidrugs per il cancro (Miranda Furtado et al., 2019).
Queste nuove ricerche chiariscono le relazioni che intercorrono tra le primissime fasi della vita a partire dal periodo prenatale, gli stili di personalità e la salute del bambino e dell’adulto. Ci spiegano anche i meccanismi molecolari con cui le caratteristiche della nostra vita (inquinamento, alimentazione, sedentarietà, stress, posizione sociale) e anche il nostro genere entrano nella biologia dell’organismo, modificandola. Ciò fornisce i fondamenti scientifici per un’integrazione forte tra biologia, medicina e psicologia (Bottaccioli, 2014b).
È una fase esaltante quella che sta vivendo la biologia, perché la rivoluzione copernicana in atto consente di chiudere l’abisso che ha separato lo studio della dimensione biologica umana da quella psichica e da quella storico-sociale, determinando l’inedita possibilità che lo studio dell’una arricchisca la nostra comprensione delle altre.
Si prospetta quindi una fase ricca di opportunità per le scienze della mente. Opportunità che non hanno avuto le precedenti generazioni di studiosi, le cui teorie si sono scontrate e/o incagliate nella biologia riduzionista dominante, costringendo ad assumere modelli dualisti, più o meno mascherati da istintivismo, oppure a rifugiarsi nel culturalismo sociologista.
Oggi, la disponibilità di una biologia non riduzionista consente di descrivere l’essere umano come organismo biologico dotato di uno sviluppato apparato psichico che è influenzato – e a sua volta influenza – la dimensione biologica.
Nel 2004, il gruppo di ricerca guidato da Michael Meney, professore alla McGill University di Montreal e ricercatore di primo piano nella epigenetica neurobiologica, ha pubblicato un lavoro (Weaver et al., 2004) che ha segnato una svolta poiché per la prima volta si dimostra, tramite l’epigenetica, che un comportamento lascia la sua impronta in modo duraturo sulla biologia cerebrale.
Cuccioli allevati da madri “poco premurose” (cioè che erano alquanto carenti nelle tradizionali cure verso i piccoli) rispetto ad altri allevati da madri “premurose” presentavano una segnatura epigenetica specifica (ipermetilazione a livello della citosina e degli istoni del promotore) del gene del recettore per i glucocorticoidi (GR) dell’ippocampo. Questa segnatura epigenetica rende l’ippocampo, e con esso l’asse dello stress, molto meno efficienti. Questi animali, nel corso dello sviluppo, presentavano un’alterazione della risposta di stress rispetto a ratti allevati con maggiore cura e, il dato più importante, le femmine degli animali allevati da madri poco amorevoli presentavano lo stesso epigenoma delle madri e quindi riproducevano lo stesso comportamento poco amorevole verso i loro figli. Qualcuno potrebbe obiettare che la diversità biologica e comportamentale sia il frutto di una differenza genetica e che quindi non c’entri niente il comportamento materno. In realtà, che sia il comportamento materno a indurre la segnatura epigenetica e non una predisposizione genetica è dimostrato dal fatto che, quando i cuccioli nati da madri accudenti venivano fatti allevare da madri scarsamente accudenti, nell’ipotalamo dei cuccioli si registrava la stessa segnatura epigenetica e lo stesso comportamento dei cuccioli nati da madri poco accudenti. Quindi sono le cure materne a segnare il cervello dei cuccioli.
Studi su umani, in anni più recenti, hanno confermato quanto documentato sugli animali. Infatti, una meta-analisi (Palma-Gudiel et al., 2015) ha trovato una correlazione significativa tra stress materno di tipo psicosociale e segnatura epigenetica disadattiva del gene che codifica per il recettore per i glucocorticoidi (il gene si chiama NR3C1).
Lo stress durante la gravidanza è una rilevante linea di ricerca da cui emergono prove sulla modulazione epigenetica dello sviluppo del feto. Lo stress materno è associato a un ambiente infiammatorio interno che segna epigeneticamente l’asse dello stress e alcune molecole chiave del feto. Condizioni di stress in gravidanza anche a causa di povertà e bassa condizione sociale, così come ansia, depressione e cattiva alimentazione, si correlano con alterazioni epigenetiche nel feto e riguardano molecole e sistemi chiave: l’asse neuroendocrino dello stress (con il gene NR3C1 sopra richiamato), il circuito della serotonina (con alterazione del gene che codifica per il trasportatore della serotonina), quello della ossitocina e della plasticità cerebrale. Infine, lo stress nella donna gravida altera un sistema placentare protettivo del feto, basato su un enzima che controlla la quantità di cortisolo materno che passa nell’ambiente fetale (Vaiserman y Koliada, 2017; Szyf, 2021).
Ad ulteriore dimostrazione del passaggio, in condizione di stress materno, di un eccesso di cortisolo nell’ambiente uterino, è giunta di recente una ricerca sperimentale dall’Università di Dresda in Germania. Un gruppo di ricercatori del Dipartimento di psicoterapia e medicina psicosomatica della Facoltà di Medicina, studiando un campione di oltre 150 donne gravide, ha documentato una relazione significativa tra elevati livelli di depressione in gravidanza e maggiori concentrazioni di cortisolo nei capelli[1] dei neonati di 2 e 8 settimane di vita post-natale. L’incremento del cortisolo nei capelli dei neonati è stato evidentemente «incorporato nel periodo intrauterino», si legge nelle conclusioni della ricerca (Karl et al., 2023).
Pare superfluo ricordare qui che i sistemi dello stress, della plasticità cerebrale, della serotonina e dell’ossitocina sono sistemi cerebrali di primo piano, la cui disregolazione è connessa all’emergenza di disturbi psichiatrici di varia natura (Bottaccioli et al., 2019).
In effetti, a questo riguardo vi è una mole di ricerche, riassumibile nella categoria ACE (Adverse Childhood Experiences), che sottolinea come essere esposti a esperienze avverse infantili aumenti la possibilità di insorgenza di malattie mentali o fisiche nelle successive fasi della vita, fino alla età anziana (Gauvrit et al., 2022). Questo filone di ricerca è stato avviato negli anni 1990 dalla collaborazione tra il Center of Disease Control and Prevention e il Kaiser Permanente’s Health Appraisal Center di San Diego in California. I soggetti studiati sono stati complessivamente molte migliaia ed è stato possibile classificare le diverse tipologie di avversità nell’infanzia (abuso fisico, abuso psicologico ricorrente, abuso sessuale, trascuratezza fisica ed emozionale e così via) e pesare la prevalenza di problemi comportamentali e di salute in età adulta in relazione alle esperienze sfavorevoli nell’infanzia (gli studi sono riassunti e commentati da Lazzari, 2019, pp. 55-65). Le conseguenze riguardano sia disturbi di interesse medico come sovrappeso, obesità e asma, sia di interesse psicologico come incremento della depressione, dell’uso di droghe e di tentativi di suicidio. Dal punto di vista dei meccanismi molecolari è emblematico un ampio studio longitudinale, realizzato da ricercatori del Dipartimento di Epidemiologia della University College London (UCL) (Chen y Lacey, 2018). Gli epidemiologi hanno osservato una coorte di nati in Inghilterra in una singola settimana del 1958, che successivamente è stata seguita fino all’età adulta dal punto di vista psicosociale. A 43 anni è stato condotto sul campione un check biomedico che ha interessato più di 9.000 persone. I ricercatori hanno trovato una relazione proporzionale tra l’intensità delle avversità dell’infanzia (abbandono fisico, separazione dei genitori, conflitti familiari, etc.) e il livello di proteina C-reattiva (PCR) e di altri marker infiammatori nell’adulto.
Infine, di grande interesse sono anche le ricerche in ambito inter- e trans-generazionale, che cioè riguardano la trasmissione di problemi comportamentali e psicologici tra genitori e figli e anche tra nonni e nipoti. Dal punto di vista intergenerazionale, citiamo alcuni studi emblematici. Un primo studio ha coinvolto 350 diadi genitore/bambino. Le conclusioni sono che i figli di genitori che hanno subito uno o più ACE nell’infanzia hanno un peggior stato di salute, in particolare un aumento della frequenza di asma, e alterazioni comportamentali indicate dall’eccesso di tempo passato a guardare la televisione (Lê-Scherban et al., 2018). Uno studio più ampio (Sun et al., 2017), che ha coinvolto circa 1.300 mamme di bambini di età tra i 4 mesi e i 4 anni, ha potuto documentare una relazione tra abusi (fisici, sessuali e psicologici) patiti dalle madri nell’infanzia e problemi di sviluppo dei figli (identificati tramite Parents’ Evaluations of Developmental Status [PEDS])
Infine, la pandemia di COVID-19 ha sottoposto le donne gravide a una condizione di stress particolarmente significativa. Ansia e depressione sono stati i disturbi più frequentemente registrati. Sulla base di ricerche realizzate su ampi campioni, i sintomi depressivi e ansiosi sono aumentati considerevolmente rispetto alla condizione pre-pandemica, ma soprattutto in pieno lockdown le percentuali hanno raggiunti livelli estremamente elevati: fino al 50% di sintomatologia depressiva e fino al 70% di sintomatologia ansiosa (Koenen, 2020; Lebel et al., 2020). Queste ricerche hanno trovato una significativa relazione tra distress materno e alterazioni di alcuni circuiti cerebrali del feto e del neonato. In particolare, uno studio di un gruppo dello statunitense Developing Brain Institute del Children’s National Hospital di Washington, D.C., ha comparato le immagini cerebrali dei feti di donne gravide prima e durante la pandemia, registrando anche il relativo livello di stress. In corso di pandemia il superiore livello di stress e depressione registrato in gravidanza correla con una riduzione del volume cerebrale fetale e un ritardo nello sviluppo che ha riguardato l’ippocampo, il cervelletto e le aree corticali (Lu et al., 2022).
Per spiegare questi fenomeni è logico supporre che giochino un ruolo fondamentale i vissuti intrapsichici dei genitori abusati nell’infanzia, con conseguenze sulla qualità della loro genitorialità e dei legami di attaccamento. Gli studi osservazionali supportano il ragionamento precedente (Uddin et al., 2020) ma, ai fini della nostra ricerca, è utile vedere se ci sono correlati biologici, se cioè le esperienze avverse nell’infanzia dei genitori abbiano lasciato segni nelle gonadi e quindi nell’epigenoma trasmesso ai figli.
Una serie consistente di studi su animali, sottoposti a insulti sperimentali di natura sia chimica che sociale (esposizione a pesticidi, a cocaina, a trauma, a stress sociale), documenta nei maschi la presenza nello sperma di segnature epigenetiche che verranno trasmesse non solo ai figli ma anche a generazioni successive (Watkins et al., 2020). Recenti report scientifici (riassunti e commentati da Kleeman et al., 2022) hanno evidenziato che anche gli spermatozoi umani possono portare informazioni su situazioni di attivazione immunitaria del genitore in epoca pre-concepimento, causata ad esempio da una infezione (toxoplasmosi), e che queste informazioni epigenetiche possano influenzare il funzionamento dei sistemi cerebrali e immunitari della prole nel corso di più generazioni senza che esse siano riesposte all’infezione. Non ha senso qui entrare nel dettaglio tecnico con cui avvengono le modificazioni epigenetiche negli spermatozoi, ma non sfuggirà al lettore la portata di queste ricerche che sono in pieno sviluppo e che, benché non conclusive, aprono un campo di osservazioni e teorizzazioni che investono la stessa visione dell’evoluzione umana (Jablonka y Lamb, 2020; Bonduriansky y Day, 2018/2020).
La solitudine e l’esclusione sociale, sia in anziani, sia in uomini e donne quarantenni, sia in bambini, sono associate a: 1) un ben definito profilo psicologico, caratterizzato da ansia, paura di ricevere valutazioni negative dagli altri e una estrema sensibilità al rifiuto; 2) un raddoppio dei livelli dei markers infiammatori (proteina C-reattiva [PCR] e interleuchine); 3) una notevole reattività del sistema immunitario agli stressor sociali e naturali come, per esempio, vedere un serpente che attacca (Bermick y Schaller, 2022).
Il sistema immunitario di persone che vivono o che anche si sentono sole è epigeneticamente modificato in senso infiammatorio.
Studi fondamentali del gruppo di Steven Cole (2015), dell’University of California, Los Angeles (UCLA), hanno documentato che vivere in condizioni di solitudine altera il profilo epigenetico delle cellule immunitarie, che è caratterizzato da una aumentata espressione dei geni che codificano per citochine infiammatorie e, per converso, una diminuita espressione dei geni che codificano per anticorpi e citochine antivirali, come gli interferoni. Questo squilibrio del sistema immunitario indotto dalla solitudine, reale o percepita, secondo le ricerche di Cole assume caratteristiche di stabilità (conserved transcriptional response to adversity [CTRA]) che espongono la persona a gravi forme di malattie infettive e di tumori.
Riguardo ai tumori, studi su donne con cancro al seno e ovarico documentano una relazione diretta tra livello di solitudine e alterazione del sistema immunitario in senso infiammatorio e pro-metastatico (Bower et al., 2018; Lutgendorf et al., 2020).
La solitudine ha anche effetti significativi sul cervello. Una review sistematica, che ha analizzato 41 studi controllati con oltre 16.000 partecipanti, che hanno utilizzato diverse tecniche di neuroimaging, ha potuto documentare una alterazione della struttura e/o della funzione di una serie di aree cerebrali di fondamentale importanza come la corteccia prefrontale dorsolaterale, l’insula anteriore, l’amigdala, l’ippocampo e altre (Lam et al., 2021). La stessa review ha rilevato una relazione tra solitudine e aumentato rischio di demenza e dei markers biologici associati all’Alzheimer. Inoltre la solitudine, secondo altre ricerche, è associata ad alterazioni metaboliche, come il diabete di tipo 2, l’ipertensione e altri fattori di rischio cardiovascolari, al punto che i ricercatori hanno etichettato la solitudine “una sindrome immunometabolica” (Pourriyahi et al., 2021).
Negli ultimi 25 anni il circolo vizioso che lega stress, infiammazione e depressione è stato ampiamente analizzato anche nei dettagli molecolari (Pariante, 2017; Remes et al., 2021). Una proporzione significativa di persone affette da depressione maggiore presenta chiari segni di infiammazione nel sangue, con aumento dei principali marker infiammatori, dalla proteina C-reattiva (PCR) alle citochine pro-infiammatorie; queste ultime (in particolare la interleuchina-6) in alcuni studi presentano un livello di concentrazione ematica di alcune decine di volte superiore rispetto ai controlli senza depressione (per i dettagli rimandiamo a Bottaccioli et al., 2022). Una spiegazione di questo fenomeno, a nostro avviso, è da ricercare nella capacità che ha l’iperattivazione del sistema dello stress di stimolare, tramite il rilascio di noradrenalina, una classe di cellule nervose, la microglia, che in realtà sono cellule immunitarie cerebrali e quindi capaci di rilasciare citochine infiammatorie direttamente nel cervello (Bottaccioli et al., 2019).
È questo un campo di ricerca in continua evoluzione anche perché le fonti dell’infiammazione in corso di depressione non sono solo legate allo stress e ai vissuti intrapsichici, ma anche alla sedentarietà, ai disturbi del sonno e dell’alimentazione, oltre che alla co-presenza di patologie di carattere internistico, come ad esempio aterosclerosi e disturbi cardiovascolari. In particolare c’è una relazione bidirezionale tra depressione, trauma, aterosclerosi ed eventi cardiovascolari acuti come infarto e ictus (Fioranelli et al., 2018). Le società scientifiche cardiologiche da tempo hanno classificato la depressione cronica come un importante fattore di rischio cardiaco soprattutto, ma non solo, per chi ha già avuto un infarto. Infine, riguardo al trauma, c’è da segnalare un grande studio, che ha interessato quasi quattro milioni di danesi e svedesi, che ha trovato un forte incremento dell’incidenza di ischemia cardiaca e di ictus tra i giovani che hanno perso uno o entrambi i genitori (Chen et al. 2022).
Diversi disturbi psichiatrici presentano una connessione con l’infiammazione. Nel sangue di persone affette da Disturbo ossessivo-compulsivo sono state trovate alte concentrazioni di citochine infiammatorie (IL-2, IL-4, IL-6 e TNF-a) e degli ormoni dello stress (ACTH e cortisolo) (Morris et al., 2017), nonché in post-mortem segnature epigenetiche disadattive in aree coinvolte nelle ossessioni come il nucleo accumbens (de Oliveira et al., 2021).
Recentemente, è stata ben documentata la relazione tra stress sociale e schizofrenia. Essere un immigrato triplica il rischio di sviluppare un disturbo schizofrenico, che diventa quattro volte se l’immigrato fa anche parte di una minoranza (razziale o sessuale). Così, nascere in città raddoppia il rischio rispetto a chi nasce in piccoli centri (van der Wal et al., 2021)
Studi sperimentali su pazienti schizofrenici documentano l’estrema sensibilità allo stress, che si registra anche in persone che non hanno sviluppato una psicosi ma che sono considerati ad alto rischio (Davies et al., 2022). Lo stress ha effetti sul sistema dopaminergico e su sistemi collegati (come il glutammato). Review sistematiche e studi controllati hanno documentato che alti livelli di proteina C-reattiva (PCR) e di citochine infiammatorie correlano con deficit cognitivi che si registrano nei disturbi psicotici. Il tema della relazione tra l’infiammazione e i disturbi schizofrenici è sicuramente complicato dai disturbi metabolici che accompagnano la malattia (Morrens et al., 2022) e che sono aggravati dall’uso cronico dei farmaci antipsicotici. Resta il fatto che indagini su persone al primo episodio psicotico documentano un eccesso di citochine infiammatorie nel sangue e i classici marker, come l’iperinsulinemia, di quella che sarà la marcia che condurrà all’insulino-resistenza e all’aumento del peso fino al diabete di tipo 2 e ai disturbi cardiovascolari, tutti fenomeni strettamente connessi all’infiammazione (Prestwood et al., 2021). Notiamo per inciso che la comprensione nella sua interezza del paziente con disturbo schizofrenico consente di fuoriuscire dalla monoterapia farmacologica affiancando ai trattamenti psicologici, anche in prevenzione nei soggetti ad alto rischio che affrontino lo stress e i vissuti intrapsichici, l’alimentazione e l’attività fisica, con l’obiettivo di ridurre al minimo l’uso degli antipsicotici per gli effetti infiammatori diretti (aumento della IL-12 e del recettore per la IL-2) e indiretti (squilibrio metabolico e ponderale come fonte di infiammazione) che conseguono alla cronicizzazione della terapia farmacologica.
Quando la psicoterapia funziona, migliora non solo lo stato mentale ma anche quello infiammatorio. Sull’efficacia della psicoterapia ci pare che ormai non si ci sia più da discutere (American Psychological Association, 2013). Meno note sono le influenze della psicoterapia sul sistema immunitario e sull’infiammazione in generale. Qui prendiamo in esame solo review sistematiche e meta-analisi, cioè gli strumenti giudicati capaci di fornire le evidenze più affidabili.
Una review sistematica ha documentato che gli effetti della psicoterapia sull’infiammazione in pazienti trattati per depressione e ha concluso che la gran parte degli studi presi in esame ha mostrato una significativa diminuzione di almeno un marker infiammatorio all’interno di un ampio range di marker esaminati. In particolare è diminuita la concentrazione di TNF-alfa e di IL-6, così come è diminuita l’espressione di altre molecole connesse alla infiammazione come NF-kB, che è la principale via di attivazione dell’infiammazione all’interno della cellula (Lopresti, 2017).
Una metanalisi, che ha valutato 56 trial randomizzati controllati (RCT) con un totale di oltre 4.000 partecipanti, ha concluso che interventi psicosociali, che includono alcune forme di psicoterapia, sono associati a una riduzione dei marker infiammatori e a un aumento del circuito immunitario che ci protegge dai virus e dai tumori (Shields et al., 2020).
Gli effetti sull’infiammazione hanno un riscontro di tipo epigenetico. Ad esempio, alcune ricerche (Yehuda et al., 2013; Vinkers et al. 2021) su pazienti in trattamento con psicoterapia di esposizione prolungata (prolonged exposure therapy [PET]), come standard del trattamento del Disturbo da stress post-traumatico (PTSD), hanno riscontrato una significativa alterazione dell’epigenetica di numerosi geni e, in particolare, una riduzione della metilazione del gene per il recettore per i glucocorticoidi (NR3C1) cui abbiamo accennato prima. Questo cambiamento della segnatura epigenetica (riduzione della metilazione) ha come effetto una regolazione del cortisolo, migliorandone la produzione sia a livello basale che sotto stress, in una parola, rendendo più equilibrata la risposta di stress che, nel caso del PTSD, sappiamo essere particolarmente sregolata sia in eccesso che in difetto.
Molta letteratura è ormai disponibile sugli effetti della meditazione e delle cosiddette tecniche mente/corpo, che comprendono anche yoga, Taiji, Qi Gong, biofeedback, neurofeedback. Queste tecniche influenzano direttamente l’asse dello stress e hanno una crescente documentazione di efficacia non solo sul controllo della riposta di stress e gli stati emozionali connessi, ma anche sulla biologia. Al riguardo, ci sia consentito citare i nostri lavori. Due studi controllati del nostro metodo meditativo, denominato PNEIMED (Meditazione a orientamento PNEI), realizzati in un gruppo di professionisti sanitari di mezza età (Bottaccioli et al., 2014) e anche in un gruppo di studenti universitari (Bottaccioli et al., 2020), hanno documentato una riduzione del cortisolo salivare basale e sotto stress.
Ma non mancano review sistematiche e meta-analisi. Una review di Bower & Irwin (2016), basata su 26 studi di cui più della metà ha riguardato gruppi di persone con patologie, ha analizzato gli effetti delle tecniche mente/corpo su alcuni marker infiammatori, come la proteina C-reattiva (PCR), concludendo che Tai Chi, Qi Gong e yoga sono particolarmente efficaci nel ridurne la concentrazione. Conferme sono giunte da studi su persone con tumore e con malattie autoimmuni come il morbo di Crohn. In quest’ultimo caso, la combinazione di meditazione e interventi psicologici ha sia aumentato il senso di benessere sia diminuito i marker infiammatori connessi alla patologia (Nemirovsky et al., 2021). Ulteriori studi sulla meditazione (oggetto di una meta-analisi di Buric et al., 2017) e sul Qi Gong (Feng et al., 2020) hanno confermato l’efficacia anti-infiammatoria e immunoregolatoria.
Sul piano clinico, assistiamo a un trend sostenuto di pubblicazioni di buona qualità, prese in rassegna in una meta-review (una “mega-analisi”) che ha analizzato 17 meta-analisi che documentano l’efficacia di alcune tecniche mente/corpo in integrazione alla terapia standard come la mindfulness per la schizofrenia, per il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) e per il PTSD (Vancampfort et al., 2021).
Ci pare di poter concludere che collettivamente i risulti delle ricerche qui analizzate mostrano alcuni meccanismi fondamentali, basati sulla regolazione epigenetica, con cui gli interventi psicologi (psicoterapia, meditazione, tecniche mente/corpo) si trasducono in biologia regolando l’espressione genica connessa all’infiammazione.
Duemila e quattrocento anni fa, Gorgia di Leontini, uno dei grandi rappresentanti della filosofia greca cosiddetta pre-socratica, scriveva: «La parola è una potente signora, che, pur dotata di un corpo piccolissimo e invisibile, compie le opere più divine: può far cessare il timore, togliere il dolore, produrre la gioia, accrescere la compassione» (in: Gorgia, V sec. a.C. [1958], p. 32).
Platone nel Filebo, del IV secolo a.C., paragona la psiche a un libro dove le sensazioni, le emozioni e la memoria scrivono discorsi sotto forma di parole e immagini (in: Platone, 2001, pp. 426-481). Infine, nel Carmide (ibid., pp. 690-712) Socrate cita un medico trace secondo cui nell’essere umano tutto prende le mosse dalla psiche, compresa la salute e la malattia del corpo, cosicché ogni terapia dovrebbe partire dalla psiche.
Cento anni fa Pierre Janet (1923/1994) scriveva: «La psicoterapia è un insieme di procedimenti terapeutici di diverso tipo, sia fisici che morali, applicabili a malattie sia fisiche che morali (…). In una parola, la psicoterapia è un’applicazione della scienza psicologica al trattamento delle malattie» (p. 244 trad. it.). Da qui l’unione tra medicina e psicologia perché sono le scienze ad essere separate, non la realtà.
Oggi possiamo confermare con prove scientifiche (che in questo articolo abbiamo sintetizzato) che effettivamente quello che la vita scrive nella psiche di ognuno di noi non solo influenza gli stati d’animo, le funzioni cognitive e i comportamenti, ma anche i sistemi biologici e la salute in generale. E viceversa: quello che accade nei sistemi biologici ha effetti non solo sulla salute fisica ma anche in quella psichica.
Come è noto, questa visione sistemica su basi scientifiche dell’essere umano viene promossa con sempre maggior vigore dalla Psiconeuroendocrinoimmunologia, che porta a compimento una variegata ricerca e un intenso dibattito scientifico e culturale che hanno pervaso il XX secolo. In ambito psicologico e psichiatrico, studiosi come William James, Lev S. Vygotskij, Franz Alexander, Kurt Goldstein, Otto Fenichel, Erich Fromm, George Engel, solo per citare i più noti, hanno cercato, da angolazioni diverse, di superare gli scogli del riduzionismo biomedico e, al tempo stesso, l’inadeguatezza delle teorizzazioni psicologiche dominanti. Lo scoglio fondamentale da superare riguardava la biologia, le relazioni tra biologico e psicologico, tra organismo umano e ambiente: una montagna fatta di scienza hard, nutrita di fisiologia chimico-fisica, biologia molecolare, neuroscienze, genetica, su cui si era edificata una medicina che pareva lanciata verso un progresso inarrestabile e inarrivabile per le scienze della psiche.
Di fronte a questo scoglio, le teorizzazioni psicologiche si sono divise, perdonateci lo schematismo, tra chi non rinunciava a includere la biologia come livello basilare costante e immodificabile nella natura umana prodotto dalla evoluzione, come è il caso della libido di Freud, della energia vitale di Jung, dell’orgone di Reich o degli istinti fondamentali di Perls, e chi accettava il divorzio dalla biologia, come è il caso di certi settori del cognitivismo, della psicologia della personalità e anche dell’ermeneutica.
A nostro modesto avviso, fare psicologia senza biologia è un errore riduzionista, simmetrico a quello biologista che riduce la psicologia a biologia (Bastianelli et al., 2021).
Il paradigma della Psiconeuroendocrinoimmunologia ci sembra di grande utilità per evitare entrambe le facce del riduzionismo. È utile perché non è un modello riduzionista: infatti non concepisce la psiche come un epifenomeno cerebrale senza storia, bensì come una dimensione identitaria dotata di un suo linguaggio, di sue modalità di trasmissione culturale, di sua relativa autonomia dal contesto biologico da cui sorge e, soprattutto, dotata della capacità di agire, in modalità conscia e inconscia, sugli altri sistemi del network umano. Ma il paradigma PNEI non è nemmeno spiritualista o culturalista, poiché non presuppone una origine divina o misteriosa della psiche, né la sua estraneità dai sistemi biologici umani da cui invece deriva. La psiche come dimensione umana soggettiva è immersa in una matrice biologica e in una matrice sociale (Vineis et al., 2020). Oggi abbiamo le prove che queste tre dimensioni, la psicologica, la biologica e la sociale, interagiscono e si condizionano vicendevolmente.
Il paradigma scientifico della PNEI può cambiare in profondità le scienze mediche e psicologiche e le rispettive pratiche cliniche, integrando la psicologia e la biomedicina, le quali, rimanendo separate, sono, per usare una metafora politica, “anatre zoppe”, incapaci cioè di dispiegare tutte le loro potenzialità di comprensione e cura dell’essere umano.
[1] È ormai di routine misurare la concentrazione di cortisolo non solo nel sangue, ma anche nella saliva e nei capelli, le cui misure sono assolutamente confrontabili con quelle ottenute dal sangue, con evidenti vantaggi di maneggevolezza e sicurezza nel prelievo, che, nel caso della saliva, può essere tranquillamente ripetuto più volte durante il giorno, consentendo così un esame puntuale del ritmo circadiano dell’ormone che spesso nei disturbi psichiatrici è alterato; mentre, nel caso del capello, la misura consente una valutazione “storica” della scarica di cortisolo, poiché in 1 cm di capello è possibile avere una stima della quantità di cortisolo prodotto in un mese.
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Limitaciones de responsabilidad:
La responsabilidad de este trabajo es exclusivamente sus autores.
Conflicto de interés:
Ninguno
Fuentes de apoyo:
La presente investigación no contó con fuentes de financiación.
Originalidad del trabajo:
Este artículo es original y no ha sido enviado para su publicación a otro medio en forma completa o parcial.
Cesión de derechos:
Quienes escribieron este trabajo ceden el derecho de autor a la revista Pinelatinoamericana y autorizan a realizar la traducción del mimo.
Contribución de los autores:
Los autores han elaborado el manuscrito y se hacen públicamente responsable de su contenido y aprueba esta versión final
Fecha de Recepción: 2023-02-02 Aceptado: 2023-03-03
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